Il diritto divino è un complesso di norme promananti da un’ autorità alla quale si attribuisce carattere soprannaturale. Tale autorità impone la propria volontà ai credenti attraverso la minaccia di una sanzione ultraterrena; nei casi di norme non specificamente sanzionate, la loro efficacia giuridica viene comunque garantita dall’effettività dell’ ordinamento giuridico di cui fanno parte, visto nel suo aspetto complessivo.
E’ peraltro pratica comune che ai trasgressori di precetti religiosi vengano comminate sanzioni terrene, “indipendentemente” dalla “successiva ed eventuale” irrogazione di quelle ultraterrene.
Le tre grandi religioni monoteiste, l’ ebraismo, il cristianesimo e l’Islam hanno tutte prodotto, nel corso dei secoli, un proprio diritto e fra i credenti di tutte e tre le fedi religiose, non mancano coloro i quali vorrebbero subordinare il diritto di produzione statuale ai principi propri delle rispettive religioni.
Tuttavia, mentre in Israele , le pressioni politiche dei gruppi religiosi più oltranzisti non hanno mai costituito un serio pericolo per la laicità dello Stato, e negli stati a maggioranza cristiana, dopo aspre lotte, il principio di laicità è pacificamente accettato da oltre due secoli, in alcuni paesi a maggioranza mussulmana la shari’a viene imposta ancora come legge dello stato e anche nei paesi islamici con ordinamenti giuridici mutuati dai modelli “europei”, vi sono forti movimenti politico-religiosi che puntano, anche attraverso l’uso della violenza, alla reintroduzione della legge islamica.
La  shari’a è il complesso delle norme desumibili, in primo luogo, dalla diretta rivelazione divina contenuta nel Corano, in secondo luogo, dalle parole e dagli atti attribuiti al profeta Maometto, nonché, infine, dalla successiva opera di interpretazione compiuta dalle scuole ortodosse hanafita, malechita, shafita e hanbalita, in un periodo di tempo che va dal 632 d.c., anno della  morte del Profeta, al 977 d.c., anno in cui fu deciso convenzionalmente di cessare l’opera di ricerca, cosiddetta idjtihad.
Premesso che tale decisione non è accettata dagli sciiti e da altre correnti religiose mussulmane non ortodosse, va detto altresì che l’Islam non esclude interpretazioni diverse della volonta di Hallha, fermo restando la fede assoluta nella unicità della divinità e nella validità delle parole di Maometto.
La attività di studio e di interpretazione della Legge Islamica è chiamata fikh  e viene effettuata dallo alim (pl. Ulema ); questi non è un giurista in senso occidentale, atteso che negli stati islamici non esistono facoltà di giurisprudenza analoghe alle nostre.
La  shari’a, come accennato in precedenza, si origina da quattro fonti diverse: il Corano, letteralmente “recitare ad alta voce”, diviso in 114 sure. Come fonte giuridica il Corano ha ben poca rilevanza; infatti dei 6237 versetti che lo compongono, solo il 10 per cento si riferisce a temi giuridici.
La Sunna, il complesso di regole – c.d. hadit – che gli interpreti hanno inferito dalle parole di Maometto, dalle sue azioni e dalla sua approvazione ad azioni compiute in sua presenza o delle quali egli era a conoscenza.
L’ idjma’, intesa come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, a condizione che il loro numero sia elevato ed il loro parere chiaramente formulato
Infine, il qiyas , norme dedotte attraverso un processo analogico operato sulle tre fonti precedenti. Si tratta dell’unica fonte specificamente giuridica, il cui utilizzo, peraltro, fu oggetto di forti contrasti in quanto si riteneva empio ricorrere all’analogia per colmare una lacuna divina.
A differenza della religione cristiana che riconosce la distinzione tra sfera laica e sfera religiosa (cfr. Matteo, 22, 17:  “Date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio), nella religione islamica l’immedesimazione fra religione e diritto è assoluta. Atteso che il diritto mussulmano è formato in prevalenza da norme di diritto privato e di diritto penale, appare evidente l’ estrema difficoltà di applicare un diritto la cui ultima elaborazione risale a più di dieci secoli fa, ad una realtà sociale, economica e politica radicalmente nuova ed in via di continua evoluzione.
Questo spiega i tentativi di modernizzazione dell’ordinamento giuridico islamico, più volte compiuti nel corso degli anni ad opera delle elitès più illuminate. Tuttavia tali tentativi solo raramente hanno portato ad una completa laicizzazione del sistema, come in Turchia; il più delle volte si è addivenuti ad un compromesso basato sulla coesistenza di due diritti diversi.
Abbiamo  così stati islamici che hanno ormai adottato da tempo costituzioni, codici e leggi “occidentali”, quali, oltre la Repubblica Turca, l’Egitto o la Tunisia, ed altri invece che continuano ad avere un ordinamento giuridico con fortissime venature religiose, come l’Iran o l’Arabia Saudita.
Il diritto islamico risente moltissimo dello spirito e delle cultura araba. Una lingua che non riproduce per iscritto le vocali apre la strada a complesse dispute filologiche e rende difficoltosa la sistematizzazione delle nozioni. Mentre per il nostro diritto vige la logica binaria del lecito e dell’illecito, per quello islamico l’atto giuridico può essere obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato e vietato.
Originatosi come predicazione prima rivolta al commerciante cittadino e poi al beduino guerriero; subordinato a precetti religiosi e, al pari di questi, immutabile; diffusosi in breve tempo su un territorio immenso che andava dall’Indonesia alla Spagna e dai Balcani al nord della Nigeria, il diritto islamico reca in sé una frattura insanabile: il suo adeguamento a tempi e società nuove è incompatibile con la sua stessa intangibilità.