L’utilizzazione, nell’ambito del comune lessico giudiziario, di termini quali “rito” o “formula” rivela la persistenza, sia pure a livello meramente etimologico, della ancestrale relazione tra il mondo del diritto e il mondo del sacro, nella sua duplice epifania del religioso e del magico.
La religione e la magia, infatti, hanno potuto e possono ancora oggi interagire col mondo del diritto, determinando una serie di interferenze normative molto interessanti e suggestive, che ci aiutano non da ultimo a conoscere meglio il funzionamento del diritto stesso.
Le tracce di questa stretta interrelazione possono essere individuate, in primis, attraverso l’analisi del diritto romano arcaico, sia pubblico che privato.
Alle origini della storia di Roma, la reazione agli illeciti che si verificavano nella civitas quiritaria era lasciata all’iniziativa degli offesi secondo i dettami degli antichi mores maiorum: i gesti criminosi erano considerati atti di prepotenza e malintenzione nei confronti di altri privati e, in quanto tali, venivano repressi con la vendetta, talora temperata dalla regola del taglione o dalla consuetudine del riscatto.
In seguito alla formazione di una comunità cittadina che andò progressivamente a sovrapporsi ai gruppi familiari e gentilizi, sorse l’esigenza da parte del potere centrale di intervenire per disciplinare la repressione criminale secondo l’interesse comune. Lo stato romano, impersonificato dal suo rex, inizialmente ritenne necessario intervenire soltanto quando i fatti criminosi configuravano un’infrazione alla pax deorum: la relazione di pace e amicizia tra la civitas e i suoi dei era infatti considerata una condizione indispensabile per la sopravvivenza del popolo romano ed era pertanto compito del sovrano, capo militare ma anche sommo sacerdote della comunità, garantirne perennemente la sussistenza. Le sanzioni di natura religiosa, disposte dal sovrano nei confronti di chi, con il suo comportamento esponeva l’intera comunità alla collera degli dei, costituiscono le prime forme di repressione criminale statale. Ampie tracce di questo primitivo sistema punitivo fondato sull’espiazione sacrale sono contenute nelle leges regiae, statuizioni unilaterali del re fondate sulla sua auctoritas. Se il contenuto essenzialmente religioso della maggior parte delle disposizioni pervenuteci non deve farci dubitare del loro valore normativo (trattandosi di precetti emanati da un rex che cumulava nella sua persona la duplice funzione di capo religioso e militare), è altrettanto indubitabile che le prescrizioni de quibus perseguivano solo secondariamente e indirettamente l’interesse laico, essendo sostanzialmente finalizzate al ripristino dell’equilibrio tra la civitas e il divino: il movente dell’intervento statale non era tanto la punizione di un crimine, quanto l’esigenza in funzione apotropaica di purificare la città da una contaminazione che avrebbe potuto attirare su di sé la collera degli dei.
Analogamente, in ambito privato, le procedure rappresentate dalla legis actio sacramento evidenziano l’influsso del fattore religioso nell’instaurazione del processo. In quest’azione la necessità del giudizio da parte degli organi della comunità è indotta dalla circostanza che entrambe le parti asseverano, mediante giuramento, di essere dalla parte della ragione: la duplicità dei giuramenti comporta che uno di essi sia falso, e la civitas deve quindi intervenire per stabilire quale delle parti, commettendo spergiuro, abbia violato la pax deorum e quindi debba espiare l’illecito religioso perpetrato.
Recentemente, è stato suggerito un ruolo determinante dei pontifices, anche in relazione all’elaborazione del concetto di persona (cfr. E. Montanari, Phersu e persona, “SMSR” 63, 1997, pp. 5-22; E. Montanari, Rappresentazioni simboliche della nobilitas in età repubblicana, “SMSR” 64, 1998).
Montanari prende le mosse dai problemi insiti nell’opinione prevalente secondo cui  il termine persona avrebbe avuto in origine il significato di “maschera teatrale” e quindi di “personaggio” e “parte”; di qui sarebbe trapassato in ambito giuridico. Questa posizione obbliga a collocare l’insorgenza dell’uso di persona in ambito giuridico in epoca non anteriore alla fine del IV secolo a.C., essendo a tale data ascrivibile  l’introduzione in Roma della più antica maschera teatrale, l’atellanica. Ora l’esame interno di alcuni aspetti della legis actio sacramento in personam rivelerebbero al contrario caratteri di marcata arcaicità in contrasto con questa datazione relativamente bassa. Da una simile aporia non si esce se non ipotizzando una linea di derivazione alternativa a quella così prospettata. L’alternativa può rinvenirsi, a parere di Montanari, nel phersu, enigmatica figura rappresentata in pitture parietali e vascolari etrusche e documentata a partire dall’ultimo quarto del VI secolo a.C.. L’esame del dossier del phersu rivelerebbe il carattere di operatore del sacro della figura in questione, dotata di una certa versatilità (tanto da comparire in contesti “festivi”  agonistico-liturgici, nonché funerari), ma  identificabile sulla base della presenza della maschera, unico elemento fisso (dal momento che neanche l’abbigliamento lo è). Appare quindi per lo meno plausibile che i Romani, proprio nell’età che coincide con il periodo di massima influenza etrusca abbiano assimilato e rielaborato un termine specifico phersu-na “attrezzo del phersu”, essendo in questo caso l’ampliamento -na da intendersi come suffisso di appartenenza.  Procedendo su questa linea di ricerca, si può tentare anche di ricostruire i tempi e i modi di questa acquisizione. “Se si ammette, ad esempio, che un uso tra i più antichi sia legato al diritto processuale civile, è ben difficile che la procedura della legis actio sacramento in personam si possa considerare introdotta solo dopo il teatro, ossia almeno nel tardo IV secolo a.C..”. La risalenza della procedura appare sufficientemente accreditata anche dal suo carattere di actio generalis al pari della legis actio sacramento in rem, della quale dovrebbe essere coeva. La data più ammissibile, per l’una e per l’altra, non dovrebbe, secondo Montanari, scendere al di sotto della seconda metà del V secolo a.C.. Persona entrerebbe in contesti giuridici a designare “il ruolo religioso-giuridico degli uomini” ed in particolare, in origine, del pater familias, il quale esercitava una potestas non illimitata, ma soggetta a regole. Indissolubilmente legata ad homo, persona non coinciderebbe con questo livello biologico dell’individuo (pur non potendosi attribuire ad altri che a figure umane), ma sarebbe piuttosto espressione di una natura seconda determinata da relazioni. A promuovere questa definizione  e questa astrazione, in un contesto culturale-linguistico, come quello Romano, così alieno dall’uso di metafore, sarebbero stati, in ipotesi, i pontifices, che potrebbero aver operato in questo caso una ri-nazionalizzazione di un elemento culturale penetrato in Roma con la dinastia etrusca. Tale ipotesi consentirebbe di inserire in un quadro cronologico più persuasivo l’arcaica procedura della legis actio sacramento in personam, stabilendo una coincidenza temporale tra attestazioni iconografiche  del phersu ed insorgenza del concetto giuridico di persona.
Un ulteriore esempio illustrerà, invece, gli snodi che possono crearsi fra diritto canonico, religione e magia. Parliamo qui della secolare pratica ancor oggi presente nella Chiesa cattolica, anche se con minore frequenza che nel passato, ovvero l’esorcismo. Esso rappresenta attualmente un insieme di pratiche messe in opera da presbiteri appositamente autorizzati secondo le regole del diritto canonico, con cui si usa scacciare i demoni dalla persone ritenute da questi possedute. Fu praticato già nell’antichità da stregoni e taumaturghi e nella religione cristiana trae le proprie origini dalla missione di Gesù Cristo che nel potere di esorcizzare vide uno dei segni della propria missione divina (Mt 12, 28). Nello stesso sacramento del battesimo è prevista ancor’oggi la pronunzia di uno o più esorcismi sul battezzando (esorcismo semplice), a testimonianza della liberazione dal peccato e dal suo istigatore, Satana. L’esorcismo solenne invece, chiamato “grande esorcismo”, può essere praticato solo da un presbitero con il permesso del vescovo. Come prescrive il Catechismo della Chiesa cattolica “bisogna procedere con prudenza, osservando rigorosamente le norme stabilite dalla Chiesa. L’esorcismo mira a scacciare i demoni o a liberare dall’influenza demoniaca, e ciò mediante l’autorità spirituale che Gesù ha affidato alla sua Chiesa. Molto diverso è il caso di malattie, soprattutto psichiche, la cui cura rientra nel campo della scienza medica. È importante, quindi, accertarsi, prima di celebrare l’esorcismo, che si tratti di una presenza del Maligno e non di una malattia”. In questo breve passo dottrinale vengono posti tutti gli elementi normativi del problema: da un lato si sottolinea il fondamento giuridico di questo sacramentale, che assume i connotati di un istituto del diritto canonico, affidato secondo una precisa gerarchia a determinate persone provviste della necessaria preparazione. Il richiamo all’autorità spirituale di Gesù costituisce il fondamento teologico della pratica. Questo viene del resto ribadito in un precedente passaggio con richiamo a numerosi passi evangelici (Mc 1, 25 s.; 3, 15; 6, 7.13; 16, 17). Il discrimine posto nei confronti delle patologie mediche chiama in causa un’altra disciplina, in questo caso scientifica, con le sue regole e le sue pratiche, fissando delle competenze terapeutiche ben delimitate. La prudenza con cui vengono definiti questi confini richiama la necessità di procedere con rigore e discrezione enunciata all’inizio della citazione, marcando a questo modo implicitamente il discrimine nei confronti di credenze popolari diffuse, sospette di paganesimo, cui la Chiesa cattolica guarda tradizionalmente, perlomeno dal Concilio di Trento in poi, in maniera decisamente scettica. Strettamente annesso a questo fenomeno vi è poi il campo della magia, anch’esso definibile in termini normativi. Secondo alcuni studiosi (cfr. G. Luck, Arcana mundi, vol. I, Magia, miracoli, demonologia, Milano 1997) l’atteggiamento della Chiesa Cattolica rivela una generale tendenza “a concentrare e a istituzionalizzare i poteri magici all’interno di un mondo religioso più ampio”.
Concludiamo questo breve excursus sulle interrelazioni esistenti tra iura e sacra con un esempio relativo alle pratiche giudiziarie anglosassoni, anch’esse influenzate da usanze e tradizioni di evidente origine numinosa.
Nel mondo greco-romano vi era una stretta associazione tra Giove ed il suo omonimo pianeta con il principio della giustizia e della legge.
Tacito (55-120 d.C.) nel suo Germania, evidenziò come Ercole, Mercurio e Marte fossero i corrispondenti latini di tre importanti dèi germanici, ovvero: Thor, Wodan e Tiu, che hanno dato origine ai nomi inglesi di martedì (Thursday), mercoledì (Wednesday) e giovedì (Tuesday).
Nel successivo periodo germanico-romano, tuttavia, Thor, inizialmente identificato con Ercole, fu collegato piuttosto a Giove. Il Giorno di Giove nel mondo latino (in italiano, giovedì, in francese, jeudi) divenne il Giorno di Thor (Thursday) nel mondo germanico. Di conseguenza, il famoso martello di Thor, Mjollnir, fu identificato con il fulmine di Giove e legato alle funzioni di giudice svolte dal dio.
Le assemblee scandinave, infatti, venivano di solito aperte il giovedì, il Giorno di Thor e il  noto martelletto usato ancor oggi dai giudici inglesi e statunitensi è ancora il martello di Thor.