La teoria istituzionale, come è noto, postula che il diritto si identifica con la società organizzata, ossia con l’istituzione.
La dottrina de qua pone in evidenza il fatto che non possa esistere diritto al di fuori di una organizzazione, di una società organizzata. Santi Romano, il più eminente tra i teorici istituzionalisti, sostiene che il diritto non è un prodotto sociale, perché è nella necessità che trova il fondamento ed è la necessità stessa diritto. Ergo, l’istituzione non produce diritto, ma è essa stessa diritto.
Le istituzioni derivano dalla necessità di organizzare un insieme di bisogni e di esigenze sociali in maniera autonoma. Il giurista palermitano pone a fondamento del concetto di istituzione gli aforismi ubi societas ibi ius e ubi ius ibi societas , intendendo affermare che non è ammissibile una società senza diritto, ovvero senza organizzazione.
La profonda intuizione di Santi Romano è stata confermata dagli archeologi, i quali hanno accertato che le prime tracce di diritto risalgono alla prima civiltà umana, ai Sumeri.
Popolo di origine sconosciuta e misteriosa, i Sumeri vissero in Mesopotamia per oltre mille anni tra il IV ed il III millennio a.C. Essi inventarono la scrittura e furono sempre loro ad elaborare la prima raccolta di leggi.
Il Codice di Hammurabi, infatti, il più noto tra i codici dell’antichità, risalente al XVIII secolo a.C., non è affatto il primo codice di leggi della Mesopotamia: il re babilonese, nel redigerlo, si era riferito ad una tradizione plurisecolare le cui radici affondano nel mondo sumerico della fine del terzo millennio a.C.
Il più antico codice sumero (in realtà, una raccolta di leggi), è quello di Ur-Nammu, fondatore della III dinastia di Ur, che regnò dal 2113 al 2096 a.C. sul paese di Sumer e di Akkad. Il testo è sumero.
Un altro codice è quello di Lipit-Ishtar, re di Isin, che governò dal 1934 al 1924 a.C. su un vasto territorio comprendente anche le città di Nippur, Ur, Uruk ed Eridu.
In questo ultimo periodo, l’egemonia sumera è terminata ed i semiti stanno avendo il sopravvento, ma il codice è redatto ancora in sumero e vi permangono ancora valori tipici della cultura di Sumer, quali, ad esempio, la ritrosia nell’applicare la pena di morte, che veniva comminata solo in casi di estrema gravità.
I Sumeri, infatti, preferivano soddisfare la vittima attraverso un congruo risarcimento per il danno subito. Leggiamo, infatti, nel codice di Ur-Nammu:”Se un uomo ad un uomo, con uno strumento…ha tagliato il piede: 10 sicli d’argento dovrà pagare; se un uomo ad un uomo, con un’arma ha rotto l’osso…1 mina d’argento dovrà pagare […]”.
Non erano previste torture, punizioni fisiche e neppure l’imprigionamento.
Molti hanno fatto notare la relativa – per l’epoca – mitezza delle leggi sumere. E’ infatti completamente assente la legge del taglione, che è invece alla base del codice di Hammurabi, nonché della legge mosaica, che, con ogni probabilità, deriva proprio dal testo del re babilonese.
Accanto alle raccolte di leggi, tuttavia, ci sono pervenute anche tavolette che registrano fattispecie concrete, raccolte come documentazione comparativa. Eccone un esempio:
Verdetto definitivo: Dingirshaga  figlio di Utukidu, ha acquistato al suo pieno prezzo di cinque sicli d’argento Nimmen-Baba, la schiava, da Nameginidu, sua madre. Ur-Baba e Lugalmarku sono i testimoni registrati sulla tavoletta riguardante il caso.  Dingirshaga ha portato questa tavola davanti al giudice e Nameginidu ha giurato per il re che ella sulla questione della schiava non sarebbe più ritornata (contestando). La schiava è stata assegnata definitivamente a Dingirshaga. Il commissario era Ina. Lushara, Lùebgala, Ursatarana (e) Ludingirra erano i giudici in quest’azione giudiziaria. Anno successivo a quello in cui fu distrutta la città di Simanun.
Il documento dimostra la incredibile modernità delle pratiche giudiziarie sumere, ma anche, ove si pensi alle questioni dibattute negli odierni nostri tribunali, la immutabile natura litigiosa dell’uomo.

Alfonso Emiliano Buonaiuto