Il documento giuridico più antico a noi pervenuto sulle pratiche diaboliche e stregonesche si trova nei “Libri de Synodalibus causis et disciplinis ecclesiasticis”.
L’autore, Reginone di Prüm († 915) , indica le regole fondamentali alle quali i vescovi dovevano attenersi nei riguardi delle credenze popolari su diavoli e streghe. Il brano in questione verrà poi nell’XI secolo riportato nei “Decreta” di Burcardo di Worms e, con il titolo di “Canon Episcopi”, lo si ritrova nel 1147 nel “Decretum Gratiani”.
All’incirca nel 1270 viene pubblicato la “Summa de officio inquisitionis” contenente un formulario di interrogatorio per idolatri e praticanti di stregoneria e, alcuni anni dopo, il frate domenicano Bernardo Guidone (ca. 1261-1331), darà alle stampe un vero e proprio manuale per inquisitori noto come  “Practica Inquisitionis haereticae pravitatis”.
L’autorità ecclesiastica, pur negando la realtà della stregoneria, sempre più sollecitata dai Tribunali ecclesiastici, dai principi, dal clero e dallo stesso popolo, a partire dal XIV secolo prese ad emanare bolle, costituzioni e lettere apostoliche  limitandosi però solo a denunciare la gravità dei delitti e a fornire indicazioni sulla misura e sulla qualità delle pene.
Intorno alla metà del XV secolo la posizione della Chiesa cominciò a cambiare e nel 1484 una Bolla papale di Innocenzo VIII capovolse la posizione precedente e riconobbe ufficialmente la stregoneria come entità reale. Nella Bolla “Summis desiderantibus affectibus” il Papa investe due monaci domenicani della funzione di inquisitori nelle regioni settentrionali della Germania, e, in particolare, nelle diocesi di Magonza, Brema, Colonia, Treviri e Salisburgo:”E anche se i nostri diletti figli, Heinrich Kramer e Johann Sprenger […] sono stati delegati come inquisitori con lettera apostolica […] decretiamo che ai suddetti inquisitori venga data potestà di giusta riprensione, incarcerazione e punizione di chiunque, senza permesso e senza limitazioni”.
Intorno al 1486, due anni dopo, Heinrich Kramer e Johann Sprenger pubblicano un libro che diverrà il codice e la summa della demonologia e che ancora oggi, a distanza di secoli, provoca nel lettore inquietudine e orrore: Il suo titolo era Malleus Maleficarum.
Lasciamo agli psicologi l’analisi delle evidenti pulsioni sessuofobiche e misogine sottese al testo e soffermiamoci invece sulle tecniche investigative  e di giudizio che gli inquisitori erano chiamati ad utilizzare.
In primo luogo, nelle inchieste e negli interrogatori, il principio posto a base della valutazione delle prove era che qualunque fatto su cui giurassero due o tre testimoni andava accettato come vero.
La paura della tortura veniva provocata e alimentata fino a che non si trasformava in uno stato di panico tale da rendere quasi inutile la necessità della tortura stessa. Se l’accusato non confessava subito, gli veniva detto che sarebbe seguito un interrogatorio sotto tortura, però solo dopo un certo  lasso di tempo, rinviando continuamente il giorno dell’interrogatorio, e usando spesso la persuasione verbale.
L’inquisitore sovente utilizzava la tecnica, oggi ben nota attraverso la narrativa e la cinematografia nordamericana, del poliziotto “buono” e di quello “cattivo”: “[…] che ordini agli incaricati di legarla con corde a una macchina di tortura; e che essi obbediscano prontamente ma non con gioia, anzi mostrando di essere turbati dal loro compito. Che venga poi liberata di nuovo, portata da un’altra parte, e che si provi ancora a persuaderla; e nel persuaderla, le si dica che può evitare la pena di morte”.
Qualunque concessione alla presunta strega era subordinata alla denuncia da parte di quest’ultima di altre infelici. Del resto, chiariscono gli autori del Malleus, la promessa di avere salva la vita non doveva essere davvero mantenuta:”il giudice può promettere, senza rischi, la vita all’accusata, ma in modo tale da liberarsi dell’incombenza di pronunciare la sentenza di morte, deputandola a un altro giudice al posto suo”.
I suicidi e i tentati suicidi si verificavano con frequenza. Nel  Malleus si legge di streghe che:”dopo avere confessato i loro crimini sotto tortura, [hanno cercato] di impiccarsi”, oppure che “approfittando della disattenzione delle guardie, si sono impiccate con i lacci delle scarpe o con gli abiti”. Tale comportamento tuttavia veniva interpretato come un’ispirazione del diavolo, e perciò come un’ulteriore prova di colpevolezza.
Il procedimento penale descritto dal Malleus è il più noto e famigerato esempio del rito inquisitorio canonico medievale, introdotto dalla Chiesa  nel 1198.
Nel processo inquisitorio il giudice inquisitore ovvero investigatore decideva autoritariamente le indagini da seguire, i testimoni da sentire e le prove di cui avvalersi. Si ricorreva largamente alla delazione, al  sospetto, al carcere preventivo, all’interrogatorio con la tortura ed era  l’accusato che doveva dimostrare la sua innocenza. Un difensore poteva assumere la difesa solo se autorizzato dal tribunale ma, se svolgeva troppo bene il suo incarico, rischiava di essere accusato di favoreggiamento.
Si trattava, dal punto di vista della tecnica giudiziaria, di una evidente involuzione.
Nel Codice di Giustiniano, infatti, il processo penale era accusatorio: il giudice era neutrale tra le parti, assistite dagli avvocati, si sentivano testimoni ed il processo era pubblico, simile al processo civile; nei sistemi accusatori moderni, l’accusa è portata avanti, per conto dello Stato, dal pubblico ministero. Questo sistema  fornisce maggiori garanzie all’imputato, perché accusatore e accusato sono sullo stesso piano, l’accusatore deve provare l’accusa e l’accusato può difendersi, il contraddittorio tra le parti è basato su prove, nessuno può essere punito per il suo pensiero o in base a sospetto.
I sistemi accusatori moderni in alcuni paesi hanno conservato parte del processo inquisitorio, con la figura del giudice istruttore che, con la polizia giudiziaria, raccoglie le prove, proscioglie o rinvia a giudizio.
In Italia questa figura è stata soppressa solo il 24 ottobre 1989, sostituito dal giudice delle indagini preliminari, che non raccoglie più le prove, non investiga ed ha solo funzione di garanzia.
Sembra, però, che alcuni giudici subiscano un po’ troppo il fascino del passato.
Consideriamo alcune evidenti analogie.
Se cinque secoli fa, i magistrati accusavano il sospettato in base al principio fondamentale secondo cui “il reo deve accusarsi da solo e se non lo fa volontariamente qualsiasi mezzo è lecito”, oggi si tende a dedurre la colpevolezza del sospettato, persino dalla mancata confessione del reato.
Se una volta, l’accusato veniva gettato in acqua con un sasso legato al collo, poi, se affogava, era segno di colpevolezza e di peccato, se galleggiava, era indemoniato e dunque messo al rogo; oggi, nel nostro democratico sistema, può accadere che dopo aver contestato all’accusato un primo reato, se ne contesti un secondo o anche un terzo così da rafforzare la poca fondatezza del primo.
Ieri era ritenuto “peccatore” non solo chi era sospettato di stregoneria o eresia e non confessava di esserlo, ma anche coloro i quali, sapendolo, non lo avevano denunciato. Oggi il colpevole è tale perchè “non poteva non sapere”.
Nelle inchieste e negli interrogatori qualunque fatto su cui giurassero due o tre testimoni veniva accettato come provato. Nell’ anno del Signore 2011, in Italia, se due testimoni – rectius, pentiti –  accusano la stessa persona, si attribusce loro fede prescindendo spesso dal cercare riscontri alle loro dichiarazioni.
Il pubblico ministero che crede ciecamente al suo teorema, il giudice delle indagini preliminari che avalla acriticamente le tesi dell’accusa o il presidente del collegio giudicante che schernisce platealmente le argomentazioni dei difensori sono sintomi della difficoltà culturale ad accettare, se non semplicemente pro forma, i principi del giusto processo. Ciò appare ancor più vero considerando che si è dovuto procedere ad una modifica della Costituzione per porre un freno ai  rigurgiti da caccia alle streghe che si erano manifestati tra alcune frange della magistratura italiana.
Vien da chiedersi se anche gli inquisitori del passato, chiamati a rendere conto del loro discutibile operato, si sarebbero autoassolti invocando, al pari di alcuni loro epigoni, autonomia e indipendenza.
Ma si sa, la sfrontatezza è propria della gioventù.
Si tratta del Bernardo Guy che Umberto Eco pone a capo degli inquisitori nel romanzo “Il nome della rosa”.