Il complesso delle norme applicabili alle attività cosmiche, definito dalla dottrina nordamericana “Space law” e da quella tedesca “Weltraumrecht”, è noto in Italia come “Diritto Cosmico Internazionale”.
La natura di questa nuova branca del diritto internazionale è stata oggetto di profonde controversie, a tutt’oggi non ancora sopite.
Agli albori dell’Era Spaziale, verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso, l’opinione prevalente era che la disciplina giuridica delle attività cosmiche fosse già ricavabile, quantomeno nelle sue regole generali, dalla Convenzione di Parigi del 3 ottobre 1919 e da quella di Chicago del 7 dicembre 1944, ovvero i trattati cui si deve la codificazione dei principi consuetudinari in materia di  navigazione aerea.
All’interno di tale corrente dottrinaria, tuttavia, coesistono due posizioni  nettamente contrapposte circa l’interpretazione da dare ai  primi articoli delle due Convenzioni che attribuiscono agli Stati la sovranità completa ed esclusiva sullo spazio atmosferico al di sopra dei loro rispettivi territori.
Secondo alcuni, il principio de quo, sebbene riferito al solo spazio atmosferico rilevante all’epoca della stipula delle Convenzioni, andrebbe automaticamente esteso anche agli spazi cosmici; secondo altri, invece, proprio la sottoposizione alla sovranità dei singoli Stati dello spazio atmosferico, implicherebbe, a contrario, la libertà degli spazi extratmosferici.
Entrambe le posizioni, tuttavia, non tengono conto del fatto che le Convenzioni indicate si occupano esclusivamente della navigazione aerea e della zona in cui essa è tecnicamente possibile.
Il 26 gennaio 1967 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò una Convenzione sui principi relativi all’esplorazione e all’uso dello spazio extratmosferico, inclusi la Luna e gli altri astri.
Tale Convenzione risolve in base a dati naturalistici il problema della natura giuridica degli spazi cosmici, distinguendo nettamente tra zone attribuite alla sovranità delle diverse compagini statali (atmosfera) e zone appartenenti all’intera Umanità (extratmosfera).
Appare evidente come la soluzione fondata su dati naturalistici abbia mutuato i propri concetti base dalla dottrina relativa al regime giuridico dei mari: mare territoriale, soggetto alla sovranità dello Stato rivierasco e mare libero, res communis omnium.
Anche tale posizione non appare soddisfacente in quanto i suoi teorizzatori sostituiscono il dato tecnico al dato giuridico, senza formulare la quaestio iuris ovvero l’ipotesi normativa cui rapportare i dati dell’esperienza (cfr., QUADRI, R.,Prolegomeni al diritto internazionale cosmico, Milano 1958;
Droit international cosmique, in “Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye”, 1959, XCVIII, pp. 504-599).
In considerazione della novità del fenomeno e dell’impossibilità di applicare analogicamente principi desunti da altre branche  del diritto,  la questio iuris, la domanda da porsi pertanto, non è: a chi appartengono gli spazi extraterrestri, ma quali attività cosmiche sono vietate e quali permesse.
Possiamo affermare che le attività cosmiche formano oggetto di un diritto di libertà.
Si tratta di un aspetto del generico diritto di libertà esistente nel diritto internazionale, in virtù della cosiddetta norma di chiusura, secondo la quale tutte le attività che non sono vietate sono ‛giuridicamente’ permesse, cioè libere e come tali protette, nel senso di non poter essere impedite.
Ne consegue che le libertà cosmiche, come aspetto del generico ‛diritto di libertà’, hanno carattere marginale o residuo nel senso che esse si estendono fin dove non si imbattono in un diritto, riconosciuto agli Stati dal diritto internazionale, che sia incompatibile con il loro esercizio. Il problema quindi consiste nel determinare in quali casi le attività di natura cosmica sono incompatibili con specifici diritti degli Stati. L’unico principio che si possa formulare al riguardo è che l’impiego di mezzi cosmici è illecito ove violi l’integrità dell’ordine territoriale degli Stati in pace o neutrali; è lecito in quanto tale impiego sia indifferente rispetto alla detta integrità. In altri termini, i mezzi cosmici non devono alterare la situazione di tutte le attività attribuite alla potestà di governo degli Stati sottostanti. Allo stato attuale della tecnica, il problema sussiste solo per i mezzi cosmici diretti da una parte all’altra della superficie terrestre (missili balistici), ma in futuro la costruzione di mezzi capaci di operare il lancio da stazioni spaziali o basi poste su asteroidi, satelliti e pianeti extraterrestri potrebbe dar vita a vere e proprie “guerre stellari”, in quanto non può ritenersi vietato la costruzione e l’’impiego di mezzi cosmici armati, malgrado l’art. 4 della Convenzione di codificazione del diritto cosmico, del 1967, sancisca la totale smilitarizzazione e denuclearizzazione dello spazio atmosferico e dei corpi celesti.
Per quel che concerne la condizione giuridica dei mezzi cosmici, va detto che essi sono assimilabili all’attività stessa fin quando ne adempiono la funzione. Ne consegue che l’intercettare, il deviare o il distruggere un mezzo cosmico costituisce un atto illecito, in quanto impedimento di una libera attività. Ed invero, l’art. 8 della Convenzione del 1967 riserva allo Stato che ha effettuato il lancio l’esclusivo ‛controllo’ e l’esclusiva ‛giurisdizione’ sul mezzo. Per rendere poi più agevole l’identificazione dello Stato di lancio, e conseguentemente più certo l’obbligo degli altri Stati di astenersi dall’interferire nell’attività del mezzo, l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato e aperto alla ratifica degli Stati membri una Convenzione sull’immatricolazione degli oggetti lanciati nello spazio, prevedendo l’obbligo, per gli Stati contraenti, della tenuta di un apposito registro con l’indicazione di una serie di dati relativi a ciascun oggetto.
Ai principi comuni si ispira anche la Convenzione ONU sulla responsabilità per danni causati da oggetti spaziali, del 29 marzo 1972. La Convenzione ribadisce la responsabilità dello Stato, o degli Stati, del lancio, e stabilisce che, per i danni causati sulla superficie terrestre o agli aerei in volo, tale responsabilità sia oggettiva, cioè indipendente da colpa, mentre, per i danni ad altri oggetti spaziali sia nell’atmosfera che negli spazi extratmosferici, essa sussista solo se sia provata la colpa dello Stato e più particolarmente delle persone addette al lancio (art. 2).
Concludiamo questo breve excursus con una nota di colore.
Nel 1961, l’Associazione interamericana degli avvocati, durante una riunione tenutasi a Bogotà,  adottò la Magna Carta dello Spazio che, nella Parte II, Affari Interplanetari, specifica:”Nel caso che venga dimostrata l’esistenza di esseri intelligenti su un altro mondo, la loro sovranità sarà riconosciuta e le leggi rispettate da tutti i popoli della Terra. Nessuna nazione o gruppo di nazioni terrestri intraprenderà mai aggressioni, conquiste né azioni belliche di alcun  tipo contro altri mondi abitati del sistema solare. La Terra perseguirà una politica di pace in tutto l’universo”.
Trattandosi di avvocati, ci sarà da fidarsi…