Il Parlamento spagnolo, con la  legge 13/2005, ha legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, equiparandolo a quello tradizionale e consentendo l’adozione congiunta di un bambino da parte delle coppie gay, o la co-adozione, ovverosia l’adozione da parte del coniuge della madre o del padre del bambino.
La legge modifica l’art. 44 del codice civile spagnolo che, anteriormente alla riforma, affermava:” l’uomo e la donna hanno diritto di contrarre matrimonio in conformità alle disposizioni di questo codice”. Alla disposizione de qua, è stato aggiunto un secondo comma, il quale recita:”Il matrimonio avrà gli stessi requisiti e gli stessi effetti quando entrambi i coniugi siano dello stesso sesso”.
Le Cortes Generales, conseguenzialmente, hanno proceduto a introdurre modifiche linguistiche in alcuni articoli del codice civile (artt. 66, 67, 154, 160, 164, 175, 178, 637, 1323, 1344, 1348, 1351, 1361, 1404 e1458), e della legge 8 giugno 1957 sul registro civile (artt. 46, 48 e 53): espressioni come “uomo” e “donna”, “padre” e “madre”, “marito” e “moglie”, “sposo” e “sposa” sono state cancellate dall’ordinamento giuridico spagnolo e sostituite  con locuzioni quali “coniugi”, “consorte” e “progenitori”.
La legge approvata in Spagna ha sollevato in tutto il mondo vibranti polemiche ed è stata fatta oggetto di numerose critiche le quali, tuttavia, ad una più attenta analisi, si rivelano deboli, oltre che pretestuose.
In primo luogo, da un punto di vista strettamente legale, va fatto rilevare che il governo di Josè Louis Rodriguez Zapatero, aveva il pieno potere di modificare il codice civile, riconoscendo giuridicamente le unioni omosessuali.
Il riconoscimento dei matrimoni omosessuali era infatti tra i punti del programma di governo del P.S.O.E. ed i cittadini spagnoli ne erano pienamente consapevoli, sebbene si possa legittimamente ritenere che i gravissimi attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid e i conseguenti “errori di comunicazione” del governo Aznar  abbiano pesato sull’esito del confronto elettorale.
Il Parlamento iberico, inoltre, ha proceduto alla modifica del codice civile nel rispetto della Costituzione spagnola, utilizzando la fictio iuris secondo cui l’art. 32 della carta fondamentale non specificherebbe che il matrimonio possa essere contratto “solo” tra un’uomo ed una donna. Ed invero, il testo dell’articolo in parola, recita: ”L’uomo e la donna hanno diritto di contrarre matrimonio con piena parità giuridica”.
La scelta dell’esecutivo di Zapatero, in secondo luogo, non appare censurabile nemmeno da un punto di vista storico e antropologico, atteso che il concetto di famiglia attualmente dominante – quella monogamica tra uomo e donna basata sul matrimonio – è solo il risultato di determinate condizioni economiche, sociali e politiche ed affonda le sue radici in uno stadio primitivo in cui dominava un commercio sessuale illimitato tra gli individui d’una tribù, il quale prescindeva dalla celebrazione di qualunque rito o cerimoniale (cfr. F. Engels, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).
Vista in tale prospettiva, una famiglia sorta tra individui dello stesso sesso non provoca alcuna sensibile alterazione alla società come si configura attualmente, atteso che, per un verso, gli omosessuali  – nella stragrande maggioranza – sono fisicamente in  grado di generare figli e che, per altro verso, la legge 13/2005 consente, come detto, sia l’adozione congiunta da parte delle coppie gay, sia la co-adozione, ovverosia l’adozione da parte del coniuge della madre o del padre di un bambino. Tale opportunità appare, de facto, la più concreta per le coppie omosessuali, soprattutto lesbiche: se una delle partner ha avuto un figlio, per vie naturali o per inseminazione artificiale, l’altra non poteva fino ad oggi avere alcun diritto legale sul bambino.
Le critiche maggiori alla riforma del Codigo Civil sono tuttavia di natura confessionale e, in quanto tali, si sottraggono ad una analisi razionale, posto che il principio fondamentale di ogni religione è “credo, quia absurdum”.
Tuttavia, meritano qui di essere riportate le parole con le quali Tolstoj – da cristiano –  giudicava il matrimonio sanzionato dalla Chiesa:”[…] nonostante Cristo non solo non abbia mai istituito il matrimonio, ma semmai, stando alle regole esteriori, lo abbia negato (<<lascia tua moglie e seguimi>>), i precetti religiosi cosiddetti cristiani hanno stabilito che il matrimonio fosse un’istituzione cristiana, cioè hanno definito delle condizioni esteriori per le quali l’amore carnale possa sembrare, per un cristiano, innocente e completamente legittimo” (L. Tolstoj, Postfazione alla Sonata a Kreutzer).
In verità, la riforma varata da Zapatero è sostanzialmente legittima; è il metodo utilizzato per vararla ad apparire – al contrario – illegittimo.
L’articolazione del pensiero presuppone l’uso della parola, sia essa pensata, parlata, scritta o espressa col linguaggio dei sordomuti. Senza il linguaggio che socializza i pensieri, non sarebbe possibile pensare, come senza pensiero sarebbero impossibili il linguaggio interiore ed esteriore. Il pensiero precede, anzi crea la parola, ma la parola, a sua volta, è creatrice di pensiero, perché la parola creata torna al pensiero, lo precisa, lo arricchisce, lo sviluppa.
Come Schleiermacher ha, acutamente, affermato : “Ogni essere umano è, da una parte, in potere della lingua che parla; lui e tutto il suo pensiero ne sono un prodotto. Non può, con completa certezza, pensare nulla che stia al di fuori dei limiti della lingua. La forma dei suoi concetti, il modo e il mezzo di connetterli sono delineati per lui dalla lingua in cui è nato ed è stato istruito; intelletto e immaginazione ne sono legati (cfr. F. Schleiermacher, Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens).
“In principio era il Logos”, afferma l’evangelista (Giov, 1:1).
Nel secolo scorso, due linguisti statunitensi, Edward Sapire e B.L.Whorf proposero l’ipotesi che la lingua non solo esplicitasse il pensiero, ma lo condizionasse. Sarebbe la lingua a permetterci di dire certe cose e non altre. Da qui a sostenere che se non disponiamo delle parole specifiche non possiamo affermare determinate realtà, e che queste di conseguenza, non esistono, il passo è breve. Secondo questa posizione per la quale la lingua determina la realtà, ad ogni mutamento della realtà deve corrispondere un mutamento della lingua secondo un rapporto di biunivocità significante-significato che impregna tutto il processo comunicativo (cfr. E. Sapir, Il linguaggio; B. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà ).
Orbene, il mutamento della lingua non può che avvenire spontaneamente. In caso contrario si finisce nell’ipocrisia del linguaggio cosiddetto “politically correct” il quale muta nome alle cose mantenendone però invariata la sostanza, adopera eufemismi e termini socialmente “accettabili” per definire realtà che non lo sono, spingendo il soggetto  che lo utilizza ad auto-convincersi che le cose siano mutate solo perché esse vengono chiamate in un modo diverso da prima.
Tuttavia, il “politicamente corretto”, sorto con lo scopo di riconoscere, anche simbolicamente, pari dignità alle diverse componenti sociali ed etniche esistenti in società complesse come quelle occidentali, si limita semplicemente ad un riesame del lessico, varando termini “politicamente corretti”, che escludano sottintesi denigratori, che suggeriscano un’idea di prevalenza maschile nella società, o anche che sottintendano un’inferiorità rispetto ad uno standard, ai quali andrebbero invece preferiti vocaboli che suggeriscano solo un’idea di “diversità”, ma mai d’inferiorità.
Nel caso della Legge 13/2005 si è andati  ben oltre.
Ed invero, la legge spagnola non ha introdotto termini “alternativi”, ma ha cancellato tout court i termini originari, senza che nella società si fossero verificati cambiamenti culturali tali da giustificare un mutamento lessicale di tale portata. Al contrario, l’intento è quello di produrre dall’alto un mutamento culturale attraverso la cancellazione delle parole, ossia del pensiero. E ciò non solo è assolutamente illegittimo, ma anche potenzialmente pericoloso per la democrazia.
Nel racconto “1984” George Horwell, descrive uno stato utopico chiamato “Oceania”, fondato sull’ideologia del “socing”, il socialismo inglese, e retto da un dittatore, “il grande fratello”, onnisciente ed onnipotente.
Tutti sono sorvegliati da telecamere e una spietata polizia segreta, chiamata “psicopolizia” è pronta ad intervenire al minimo sospetto di “psicoreato”. La coscienza del partito permea le coscienze di tutti gli abitanti di Oceania, suscitando in essi un senso di colpa al solo pensiero di violare i principi del socing. L’arma attraverso cui il Grande Fratello esercita questo immenso potere sulle masse è la “Neolingua”.
La Neolingua è un sistema linguistico arbitrariamente elaborato dai tecnici del Partito, in cui ogni termine assume solo ed esclusivamente il significato che appare più compatibile con i dogmi del socing.
Atteso che la grammatica di una lingua è la guida dell’attività mentale umana, le trasformazioni linguistiche poste in essere dal Partito-Stato hanno la funzione di impedire qualunque visione o interpretazione della realtà differente da quella ortodossa.
Orwell, nel racconto, fa parlare così i linguisti scelti dal partito per l’elaborazione della Neolingua:” Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo”.